Silvana Barbarini,
danzatrice futurista

AERODANZA: CRONACA DI UN INCONTRO
di Silvana Barbarini


Io non sono una studiosa. Sono una danzatrice. Sono stata allieva di Giannina Censi e ho concluso il mio “discepolato” nel 1979 dedicandole l’allestimento di un programma di danze il più possibile futuriste.

Ho lavorato al progetto insieme ad Alessandra Manari realizzando uno spettacolo,in seguito ampliato e battezzato Siiovlumnia-Torrente che conteneva cinque aerodanze coreografate in stretta collaborazione con Giannina Censi, più una danza di guerra. Queste sei danze, presentate per la prima volta alla Galleria d’Arte (Il Brandale) di Savona nel maggio 1979, ricercavano un’analogia di codice con le danze inventate da Giannina fra il 1931 e il 1932.

Il nostro lavoro è iniziato con una lunga e circostanziata intervista a lei, seguita da letture di cronache dell’epoca e spoglio di documenti soprattutto fotografici; abbiamo poi allargato il nostro studio al futurismo nel suo complesso e alle altre forme di danza futurista, antecedenti all’esperienza di Giannina.

Ogni esperienza esaminata (dai Balli Meccanici di Paladini/Panneggi e Bragaglia ai Balli Plastici di Depero, dalle “azioni sceniche” di Balla alle Pantomime di Prampolini) sembrava essere un’interessante provocazione nello sviluppo dell’arte coreutìca.

Però, a mio parere, il contributo veramente originale che il futurismo ha dato alla storia della danza risiede in un documento teorico, ll Manifesto della danza Futurista e nella concretizzazione che Giannina Censi diede ai principi di quel manifesto agli inizi degli anni ’30.

Nel Manifesto Marinetti compie un’analisi, ovviamente dal suo punto di vista, di tutte le forme di danza che conosce e ognuna risulta inadeguata ad esprimere l’essenza del futurismo.


G. Censi, Aerodanza 1930

Individua un parziale interesse nella ginnastica ritmica di Dalcroze (che però limita i suoi effetti alla sola igiene dei muscoli e alla descrizione dei lavori agresti); nella “metacoreia” di Valentine De Saint-Point, una danza astratta e metafisica che deve tradurre il pensiero puro senza mimica, senza sentimentalismo, senza banalizzazione di ardore sessuale (ma le sue danze, su poesie passatiste, sono astrazioni statiche, aride, fredde, senza emozione); nel geometrismo di Nijinsky (vi sono punti di contatto con le costruzioni di forme e volumi di Cèzanne); nella danza libera di Isadora Duncan (ma essa in fondo, legata all’impressionismo pittorico, non riusciva a dare emozioni complicatissime di nostalgia disperata, di voluttà spasmodica e di giocondità infantilmente femminile); nell’esperienza dei ballets russes di Diaghilew (che modernizzavano i balli polari dando allo spettatore un’espressione perfetta e originale della forza essenziale della razza); nelle danze latino-americane che si raffinavano a Parigi prima della guerra (tango argentino spasmodico furente, zamacueca del Chile, maxixe brasiliana, santafè del Paraguay); nelle danze cambogiane e jiavanesi (che si distinguono per eleganza architettonica e regolarità matematica); nelle danze antiche in genere ancora molto vicine alla loro funzione d’uso (in cui si riconoscono simboli religiosi – le prime danze orientali o lascivi – la danza del ventre e le danze sudanesi). Condanna gli esperimenti di stilizzazione delle danze selvagge, di elegantizzazione di danze esotiche, di modernizzazione di danze antiche che incominciarono in Europa – una volta morto e sepolto il glorioso balletto italiano – e definisce queste operazioni “anacronismo erotico passatista per forestieri”.

Per finire dichiara: noi futuristi preferiamo Lòie Fuller e il “cake-walk” dei negri (utilizzazione della luce elettrica e meccanicità). E successivamente proclama: “…la danza ha sempre estratto dalla vita i suoi ritmi e le sue forme…in questa nostra epoca futurista bisogna giungere al metallismo della danza… all’ideale corpo moltiplicato DAL MOTORE… la danza futurista sarà accompagnata da rumori organizzati e dagli intona-rumori…sarà disarmonica sgarbata antigraziosa asimmetrica sintetica dinamica parolibera…la danza futurista italiana non può avere altro scopo che immensificare l’eroismo…: io traggo le tre prime danze futuriste dai tre principali meccanismi di guerra…lo shrapnel, la mitragliatrice e l’aeroplano”. Marinetti non voleva il ballo meccanico, voleva una danza muscolare che fosse calda, espressiva, energica (in quel momento anche interventista), ma allo stesso tempo lucida, rigorosa, attiva. Che erano poi le qualità che lui attribuiva alle macchine.
Prima di esaminare la struttura delle danze di Giannina Censi mi soffermo un momento sul mito della macchina, poi, bisognerà parlare anche della guerra. Il fascino della macchina per i futuristi risiede nella sua natura di oggetto vivo.


G. Censi, Aerodanza 1930

Da ferma la macchina è una scultura in cui sono individuabili delle linee di forza in equilibrio statico che suggeriscono la potenzialità di un movimento. Poi improvvisamente la macchina entra in funzione, compie un’azione intervenendo sullo spazio vicino o lontano. L’azione viene effettuata con precisione matematica, con freddezza e rigore, ma anche con tensione interna, con echi di vibrazione emotiva. La macchina compie un’azione vitale. Nasce come prolungamento delle capacità umane e le supera.
Diventa per l’uomo che l’ha creata un ideale. Un modello da copiare. Una divinità da cui lasciarsi possedere per sentire le proprie energie fisiche e psichiche trasformate, accresciute, “moltiplicate”. Ora apro una piccola parentesi.

Una volta lessi un testo autobiografico di Isadora Duncan. Lei diceva di voler ritrovare nella sua vita e nella sua arte la naturalezza del rapporto armonioso uomo-natura che ai suoi tempi non esisteva più e che non era esistito nemmeno nella preistoria, ma che sbocciò nella Grecia classica impregnando di sé anche l’arte della danza. Non esistendo forme vive di danza greca classica (i dipinti non bastavano a rilevare la dinamica del movimento, cioè il suo sviluppo nel tempo e nello spazio e la sua motivazione interiore) Isadora individuò un’altra forma di ispirazione: la musica.

Per ritrovare un’armonia naturale di movimento era sufficiente abbandonarsi totalmente all’ascolto di grandi composizioni classiche (i compositori classici inseguivano modelli di perfezione ellenica) e lasciare che il proprio corpo improvvisasse, con tutta la sua esperienza della vita, “posseduto” dalla musica.

Ricordo di aver pensato che ogni volta che nasce una nuova forma di danza, c’è qualcuno che ha abbandonato il suo corpo a qualche demone o dio. Ha lasciato impressionare la sua sensibilità da qualche forte impronta interna o esterna. Ha percepito, raccolto e restituito forme, tempi, spazi, energie che gli giungevano da chissà dove.
Nel caso della danza futurista il demone in questione sarebbe la macchina, e nel caso specifico di Giannina Censi fu, soprattutto, l’aeroplano (di qui la definizione di “aerodanza”). All’epoca di Giannina (erano passati quasi quindici anni dalla stesura del Manifesto) l’aeroplano non era più soltanto un meccanismo di guerra.


G. Censi, Aerodanza 1930

Era una macchina potente, la più potente e fra l’altro concretizzava un sogno di millenni. Poteva volare. Poteva spostarsi velocemente e raggiungere i luoghi più sperduti del pianeta. Poteva compiere evoluzioni e acrobazie. Per guidarla ci volevano prontezza, abilità e coraggio. L’uso di questa macchina comportava un’alterazione della percezione. La velocità, la possibilità di allontanarsi e avvicinarsi alle cose, di muoversi in tutte le direzioni e infine la libertà di cambiare rotta ad ogni istante, esercitavano una forte influenza sulla psiche dell’artista che si lasciava possedere da questo dio.

Lontani mille miglia dalle alterazioni della coscienza prodotte dall’oppio, con “l’aereo-arte” siamo di fronte ad un Io sveglio, veloce, sovreccitato. Persiste una grande fiducia nei sensi, si velocizza il tempo di elaborazione. Qua e là nei titoli delle danze (A mille metri da Adrianopoli bombardata, etc.) affiora anche il tema della guerra, seppur vista da lontano.

La guerra dei futuristi non è tragedia, sofferenza, carneficina. Non ci sono vittime ingiuste. Ci sono solo attori protagonisti ed atti oggettivamente spettacolari. Voglio dire: la guerra è metafora di energia in movimento, scultura in trasformazione continua. Non è grigia, non è tremenda. E’ uno spettacolo grandioso, esaltante. E’ teatro di eventi simultanei. Provocazione nella materia. Quantità. Sorpresa. Rumore. Scatenarsi senza posa di accadimenti. Di reazioni in velocità.
Non c’è tregua. La percezione si attiva su più fronti. Subentra uno stato di eccitazione, di accelerazione, di aggressività. Si crea un’occasione di gioco moltiplicato, di esperienza forte e vitale.
C’è un senso di concretezza. Di tempo presente (si vuole conservare nella scrittura la verità materica della prima percezione. Il totale è la somma dei frammenti. Non la rielaborazione filtrata. Si tende a fermare e fotografare il pensiero grezzo, senza renderlo omogeneo, lineare, rotondo. Nasce un linguaggio scritto sonoro e visivo).

Nascono il “paroliberismo” (“Le parole, liberate dalla punteggiatura, irradieranno le une sulle altre, incroceranno i loro diversi magnetismi, secondo il dinamismo ininterrotto del pensiero” F.T. Marinetti. Supplemento al Manifesto tecnico della letteratura futurista, Milano 11 ottobre 1912 in L. Scrivo, Sintesi del Futurismo, Roma, Bulzoni. 1968) e “l’onomatopea” (“Il poeta futurista potrà finalmente utilizzare tutte le onomatopee anche e più cacofoniche, che riproducono gli innumerevoli rumori della materia in movimento”, ibidem). L’artista “in volo” cerca strutture più libere del normale linguaggio parlato per non tradire la materia e per non tradire il suo filtro selezionatore e trasformatore. Cerca forme ancora vive.
Questo è quello che fece anche Giannina Censi con la danza.
Cercare forme vive. Dal punto di vista gestuale direi che le sue danze appaiono costituite da movenze onomatopeiche.
Dal punto di vista strutturale sono parolibere. Nascono come traduzione in movimento di realtà sperimentate, non solo sognate o pensate. All’inizio si appoggiano sulla struttura di altre opere: poesie o quadri. Tengono dunque conto di come un altro artista ha già organizzato la stessa realtà: Giannina danzava mentre Marinetti declamava le sue aeropoesie o anche nel più assoluto silenzio mentre Trampolini camminava fra il pubblico mostrando uno dei suoi quadri. La base sonora quando c’è, è molto diversa dalla musica.

Viene dunque ad essere eliminata la costrizione ritmica della battuta musicale. Nella mente del danzatore non c’è fraseggio, né melodia. Ci sono immagini o rumori. O altre opere. Che a loro volta evocano cose reali.
Sulle parole il tempo non è sempre e solo il tempo delle parole declamate. A volte è il tempo delle realtà che le parole suggeriscono. Sul silenzio il tempo è sempre un tempo di immagini mentali. Tanti frammenti di percezioni reali, messi uno dopo l’altro, senza raccontare nessuna storia, così, come si presentano alla memoria, organizzati in una macrostruttura che più astrattamente li comprende. Il danzatore si muove in uno spazio policentrico, che cambia continuamente, almeno nella sua immaginazione.


G. Censi, Aerodanza 1930

Nella coreografia ci sono cambi di direzione frequenti per caratterizzare i diversi cambiamenti di immagine.
Ci sono percorsi spezzati, curvilinei. Linee rette sia diagonali, sia verticali, sia orizzontali. Il movimento mette in luce l’architettura del corpo, la sua funzionalità strutturale, gioca con i suoi volumi, con le sue articolazioni (la tuta aderente grigio metallo indossata rende visibile ogni parte). Coinvolge a volte tutto il corpo insieme, a volte solo una parte, magari periferica. Oppure simultaneamente una parte esegue un movimento e una parte ne esegue un altro.

E’ importante essere insieme precisi e sensibili. Come le macchine. Le macchine vive. Lo scheletro preciso e la muscolatura disponibile al passaggio dell’energia, non congelata in pose culturiste. La pelle trasparente, non un sacchetto costrittivo. Il volto partecipe. Ci si lascia guardare più da vicino. Scoprendo ci si scopre. C’è appropriazione, conoscenza.
Ci sono salti e cadute, quando le immagini suggeriscono al corpo di staccarsi dal suolo o di precipitarvisi. A volte il peso del corpo non poggia solo sui piedi, ma altre parti toccano il suolo e diventano la base della scultura. C’è anche orgoglio, eroismo, intuizione, destrezza.
Il corpo è una macchina-scultura in movimento che compie azioni umano-meccaniche, lasciandosi guidare dalle immagini percepite. Il corpo di Giannina Censi era anche un corpo “colto” di forme tradizionali, che riaffiorano qua e là, magari deformate, invase da vibrazioni, essenzializzate, piegate a esprimere sensazioni. Un arabesque. Un jetè. La posa di un esercizio ginnico. Ma prive della loro neutralità. Costrette a parlare. Ad esprimere. Fino a suggerire e a contenere emozioni diverse da quelle normalmente presenti in queste forme. C’è un uso sia di posizioni parallele, sia di posizioni aperte. Anche un gusto particolare per le posizioni di profilo, tipico dell’epoca.


G. Censi, Aerodanza 1930

Ma ci sono soprattutto nuovi gesti: quelli che io definisco “movimenti onomatopeici”, che sembrano nati non dalla storia della danza, ma da un processo di astrazione dal reale in termini di spazio forma energia.

Ho usato questo concetto di “astrazione dal reale” perché voglio sottolineare l’analogia di un processo creativo con un artista come Nikolais.
Quando due anni dopo alla scuola di Nikolais, lui ci diede come tema della composizione finale del primo quadrimestre “astrarre da un animale” io non feci un’operazione molto diversa da quella che aveva fatto con gli aerei di Giannina Censi.

L’unica differenza fu che il giorno dopo lui ci spinse ad andare più in là: far perdere le tracce dell’oggetto in questione dimenticando durante l’esecuzione la sua “vibrazione”.

Il futurismo e la danza futurista, invece, pur nelle loro organizzazioni sintetiche dinamiche e parolibere delle forme, non dimenticano mai il referente esterno. Questo con Nikolais e con gli artisti che provengono dalla sua scuola, mi sembra il punto di contatto più evidente dell’aerodanza con le esperienze successive.